Affermando «l’obiettivo di utilizzare il testo poetico come voce critica della società» e «la decisione di contestualizzare il testo in una reale dimensione pubblica», si sta ribandendo la valenza etica e politica del gesto artistico compiuto, così come la necessità di considerare la letteratura e le arti in generale come uno spazio di manifestazione dialettica del politico, risalendo al suo significato originario – una letteratura che agisca dentro la polis, restituita alla comunità, attiva nella prassi.
di Marilina Ciaco
Nel 2013, anche a partire dagli spunti poetico-critici emersi durante la prima edizione di Ex.it – Materiali fuori contesto, nasce la collana indipendente e autoprodotta di scritture di ricerca Benway Series, fondata da Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano e Marco Giovenale, con il sostegno della tipografia e casa editrice La Colornese (per le edizioni Tielleci di Colorno). Sul sito web del progetto se ne illustrano gli intenti e le scelte in questi termini:
Benway è una serie
In una serie emerge almeno una relazione forte tra gli elementi che la compongono. Questa relazione è una delle ragioni di tali elementi.
La serie di Benway forma un tracciato. Il tracciato è orientato, non predefinito. Ogni orientamento presuppone la ricerca di un luogo. La ragione di Benway sta nella ricerca.
Le ragioni e le scelte del progetto Benway Series
Il progetto editoriale Benway nasce dalla volontà di alcuni autori e traduttori italiani di offrire al lettore un percorso poetico e conoscitivo segnato sia da titoli tradotti di particolare importanza, sia da titoli italiani che propongono una ricerca poetico-artistica come sguardo critico sulla realtà, ma che non trovano spazio nei piani editoriali delle case editrici di grandi dimensioni.
Ogni pubblicazione Benway è bilingue: il fine è di mantenere una doppia e reciproca possibilità di lettura con chi, al di fuori dei confini nazionali, è interessato alla ricerca letteraria e partecipa alla definizione di un tracciato editoriale e culturale che ambisce a qualificarsi internazionale.
Il libro Benway vuole essere all’altezza di ciò che contribuisce a diffondere in termini di pensiero. Da qui, la scelta di stampare libri – “oggetti d’arte” – invece, ad esempio, di produrre i meno costosi eBook, trova le sue ragioni nel voler pensare il contenuto di un’opera come una presenza concreta alla quale dare attenzione anche in termini di tempo e sforzo dedicati a un artigianato essenziale del libro: la fattura e la meticolosa cura per l’impaginazione, la scelta dei materiali e degli aspetti grafici.
La diffusione del progetto e dei libri pubblicati
Per far conoscere il progetto editoriale Benway Series e promuovere i titoli pubblicati, i curatori prediligono iniziative culturali che coinvolgano un pubblico più eterogeneo rispetto a quello dei classici reading, con l’obiettivo di utilizzare il testo poetico come voce critica della società. Da qui la decisione di contestualizzare il testo in una reale dimensione pubblica.
Esempi significativi sono la partecipazione ad alcuni eventi focalizzati sui grandi temi contemporanei della migrazione dei popoli e del lavoro.
Altre scelte di diffusione del progetto editoriale riflettono una particolare attenzione per gli studenti e si sono concretizzate in incontri nelle università in collaborazione con i docenti, e in una serie di iniziative rivolte principalmente a un pubblico giovane e in formazione.
Specifiche tecniche
I libri sono stampati su carta Munken Pure 120 grammi, una carta naturale senza legno, dalla nuance avorio, leggermente spessorata [Munken Pure è un marchio Artic Paper]. Per le copertine dei libri sono utilizzati fogli Flora 240 grammi, una carta dalla superficie scheggiata trattata con collanti naturali. È composta al 100% di fibre di cotone, Chlorine Free [Flora è un marchio Cordenons]. La rilegatura è a colla con cuciture a filo refe.
[fonte: Il progetto editoriale / About]
L’esplicito configurarsi del progetto come «serie» e l’accento posto sulla «relazione forte tra gli elementi che la compongono» fa subito pensare a un qualcosa che si discosta, almeno in parte, dall’idea più o meno tradizionale di collana editoriale: in quest’ultima, pur essendoci un legame (tematico in senso ampio, di genere, di poetica) che accomuna per una qualche caratteristica i vari libri pubblicati, a prevalere è (solitamente) la singolarità del volume in quanto unicum, inserito in quel determinato contesto di presentazione a un pubblico e di distribuzione sul mercato. Viceversa, i testi di Benway Series non risultano semplicemente giustapponibili l’un l’altro per una o più qualità rilevate a posteriori, ma si presentano sin dall’articolazione originaria della collana come porzioni di una totalità organica, tenute insieme da omologie strutturali «forti» e dalle relazioni orizzontali, sintagmatiche, che ciascun libro intesse con l’altro, come se si trattasse – anche in questo caso – di formulazioni differenti calate entro il medesimo discorso, segmenti di una medesima partitura grafico-ritmica. Al tempo stesso, «il tracciato è orientato» ma «non predefinito», e infatti ci si potrà probabilmente stupire dell’alto grado di eterogeneità che, nonostante e in virtù del progetto generale, l’insieme dei volumi rivela: per provenienza geografica, per collocazione su un asse diacronico, per tipologie di «voci» che dalle pagine emergono, per autonomia degli «involucri» testuali specifici all’interno dei quali sono declinate forme e poetiche, un fenomeno del resto già attestato dalle indagini critiche condotte sui testi di Ex.it.
Un paradosso tangibile, insomma, che sembra parzialmente dirimersi se si considera che ciascun testo propone «una ricerca poetico-artistica come sguardo critico sulla realtà», ma ci sembra che non sia ancora stato toccato del tutto il fulcro della questione. Quando invece si fa cenno alla «scelta di stampare libri» come «oggetti d’arte» e alla particolare cura rivolta agli aspetti che riguardano l’«artigianato del libro», la grafica e l’impaginazione, la scelta dei materiali – del supporto – ecco che ci si avvicina sempre più a quella pratica che a nostro avviso condensa la «relazione forte» posta a fondamento dell’intero progetto: ciascun testo pubblicato da Benway Series dialoga con la forma-installazione e Benway Series nel suo complesso può essere ritenuta una macro-installazione in forma di progetto editoriale, i cui oggetti corrispondono ai singoli volumi e il cui intento principale è quello di porsi, attraverso la scrittura e i linguaggi, come «spazio di svelamento (in senso heideggeriano) dell’eterotopico potere egemone che è occultato dietro l’ambigua trasparenza dell’ordine democratico», ritornando alle parole di Boris Groys sull’installazione artistica [Boris Groys, Politics of Installation, «e-flux» n. 2, gennaio 2009].
Più avanti si chiarisce, in modo diremmo significativo, la doppia relazione che istituisce Benway Series in quanto progetto poetico-artistico, vale a dire che la connessione esperibile fra i singoli numeri e lo spazio di esposizione della collana si rivela analoga a quella che intercorre, a un livello successivo, fra la stessa collana e il contesto storico, sociale e politico nel quale si inserisce. Affermando «l’obiettivo di utilizzare il testo poetico come voce critica della società» e «la decisione di contestualizzare il testo in una reale dimensione pubblica», si sta ribandendo la valenza etica e politica del gesto artistico compiuto, così come la necessità di considerare la letteratura e le arti in generale come uno spazio di manifestazione dialettica del politico, risalendo al suo significato originario – una letteratura che agisca dentro la polis, restituita alla comunità, attiva nella prassi.
Guardando ora più nello specifico ai titoli pubblicati all’interno della collana, ad oggi se ne contano quattordici, (quasi) tutti bilingui: 1. Corrado Costa, La sadisfazione letteraria/ Literary Sadisfaction, con traduzione inglese di Paul Vangelisti, 2013; 2. Michele Zaffarano, Cinque testi tra cui gli alberi (più uno) / Five Pieces, Trees Included (Plus One), con traduzione inglese di Damiano Abeni e Moira Egan, 2013; 3. John Ashbery, Cento domande a scelta multipla/ One Hundred Multiple-Choice Questions, con traduzione italiana di Damiano Abeni e Moira Egan, 2013; 4. Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera/ Nioque de l’avant-printemps, con traduzione italiana di Michele Zaffarano, 2013; 5. Giulio Marzaioli, Arco Rovescio / Inverted Arch, con traduzione inglese di Sean Mark, 2014; 6. Charles Reznikoff, Olocausto/ Holocaust, traduzione italiana di Andrea Raos; 7. Pietro D’Agostino, Carta da viaggio / Alight, a cura di Mariangela Guatteri, 2014; 8. Nathalie Quintane, Osservazioni / Remarques, con traduzione di Michele Zaffarano, 2015; 9. Gherardo Bortolotti, Quando arrivarono gli alieni / When The Aliens Arrived, con traduzione italiana di Johanna Bishop, 2016; 10. Mariangela Guatteri, Tecniche di liberazione / Techniques de libération, con traduzione francese di Michele Zaffarano, 2017; 11. Corrado Costa, Le nostre posizioni / Our positions, con traduzione inglese di Paul Vangelisti, 2018; 12. Giulio Marzaioli, Il volo degli uccelli, con tavole di traduzione di Pier Mario Marzaioli, 2019; 13. Ron Silliman, Il quaderno cinese / The Chinese Notebook, con traduzione italiana di Massimiliano Manganelli, 2019; 14. Forrest Gander, Essere con / Be With, con traduzione italiana di Alessandro De Francesco, 2020. A partire dal 2014 alla serie di libri bilingui si aggiunge poi la serie di Fogli Benway, artefatti che rappresentano dei veri e propri pezzi unici dell’artigianato editoriale e che mostrano, sia nelle fattezze estetiche che nella progettualità poetica su cui si fondano, un chiaro sconfinamento del testo nel campo delle arti visuali e installative. Questa la descrizione che ne fornisce Mariangela Guatteri:
I Fogli sono a tutti gli effetti libri e, allo stesso tempo, manifesti, opere, quadri. All’autore è offerto un rettangolo di carta 48×33 cm che – confezionato in piegatura – potrà essere utilizzato con totale libertà, nell’assunto che la pagina non è soltanto una superficie piana, bensì uno spazio, un campo in cui si giocano (e da cui nascono) tutte le possibilità immaginabili. I Fogli potranno così essere spiegati e letti (guardati) a fisarmonica, a pagina piena, a doppia colonna, così come ciascun autore avrà inteso concepirli.
[fonte: M. Guatteri, Feuilles/Fogli – Première séries / Prima serie 1-9, 11 novembre 2014]
Per i Fogli si può parlare senz’altro di un tipo di installazione esplicita, con la pagina concepita, nel suo formato fisso e perimetrato da precise contraintes, come uno spazio nel quale confliggono e si compenetrano almeno due ordini simbolici e pragmatici, quello conferito da ciascun autore e quello scelto dal lettore per attivare il dispositivo estetico, imprimendogli una certa modalità di funzionamento e provando a svelare, mettere alla prova, sovvertire le regole che il testo espone. Neppure si può tacere delle numerose suggestioni di lettura e dei richiami a distanza scaturiti dall’idea di «piegatura», che vanno dalla più celebre piega deleuziana, generata dalla tangenza fra un numero infinito di curve in infiniti punti e dal dischiudersi di universi cavernosi nell’infinita variabilità dell’oggèttile [cfr. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 1990, pp. 22-27], a La piegatura del foglio di Adriano Spatola, raccolta del 1983 caratterizzata dall’uso della «parola come formula incantatoria, piacere delle tautologie, dei paradossi, dei “sophismes magiques”, dilatazione fonica» e ancora da «anamorfismi verbali», «delirio verbale controllato», «frammenti o schegge di linguaggio decontestualizzato che entrano in combinazione» [Guido Guglielmi, prefazione a Adriano Spatola, La piegatura del foglio, Napoli, Guida, 1983].
I titoli dei Fogli pubblicati, tutti caratterizzati da una facies visiva assolutamente personale, sono i seguenti: 1. Giulio Marzaioli, Dedans / Maison / Dehors = Interno / Casa / Esterno, con traduzione francese di Michele Zaffarano, 2014; 2. Mario Corticelli, Personne ne reste découragé longtemps = Nessuno rimane scoraggiato a lungo, con traduzione francese di Michele Zaffarano, 2014; 3. Mariangela Guatteri, La connaissance de l’espace = La cognizione dello spazio, con traduzione francese di Michele Zaffarano, 2014; 4. Simona Menicocci, La mer est pleine de poissons = Il mare è pieno di pesci, 2014; 5. Marco Giovenale, Phobos, con traduzione francese di Michele Zaffarano, 2014; 6. Elisa Davoglio, Roches Figures, con traduzione francese di Luigi Magno, 2014; 7. Michele Zaffarano, Quitte ou double? = Lascia o raddoppia?, 2014; 8. Alessandro Broggi, Protocoles = Protocolli, con traduzione francese di Michele Zaffarano; 9. Michaël Batalla, Alessandra Cava, Jennifer K. Dick, Laurent Grisel, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Anne Kawala, Florence Manlik, Renata Morresi, Marc Perrin, Gilles Weinzaepflen, Le Moulin 14 – 19 juillet 2014 = Le Moulin 14 – 19 luglio 2014, traduzione collettiva, 2014; 10. Mariangela Guatteri, Πίνακας των υλικών = Tavola delle materie, traduzione in greco di Giorgia Tsouderos, 2018; 11. Giorgiomaria Cornelio, Rinnovella / Renouvelle, traduzione francese di Alessandro De Francesco, 2020.
Ritornando invece ai libri bilingui, possiamo notare che la serie si apre con Corrado Costa, che sarà poi pubblicato nuovamente cinque anni dopo, quasi a rimarcare quell’idea di «fratellanza letteraria» rilevata da Gian Luca Picconi nel contesto di Ex.it. In questo caso ci sembra curioso che proprio Costa sia l’unico autore italiano della “seconda avanguardia” a essere riconosciuto, più o meno dall’unanimità degli autori, quale punto di riferimento per la poesia di ricerca contemporanea; le ragioni ipotizzabili potrebbero essere varie, dalla declinazione di certo eclettica, intermediale e irriverente della sua operazione sperimentale, a un certo porsi consapevolmente in una posizione liminare, «fuori» dalle più consuete dinamiche “accentratrici” che alimentavano in varia misura tanto il Gruppo 63 quanto il Gruppo 70, o forse, più probabilmente, per la sua littéralité ante litteram, per una coscienza più spiccata che in altri del fatto che «la poesia come lebensform si caratterizza in negativo, è il calcolo di ciò che manca, tratta il rapporto fra chi parla e il molto meno che dice» [Corrado Costa, Lettera a Tam Tam (1980), in The complete films. Poesia prosa performance, a cura di Eugenio Gazzola, con un’antologia multimediale di Daniela Rossi, Firenze, Le Lettere, 2007, p. 161].
Con Benway Series si conferma, poi, la forte vocazione alla transnazionalità e al dialogo con le sperimentazioni di area anglofona e francofona, seguendo una linea del tutto coerente con quanto già avvenuto all’interno di GAMMM e con la diffusione delle traduzioni su rivista sin dalla fine degli anni Novanta. Diversi titoli corrispondono infatti alle prime traduzioni italiane di opere che vanno dall’oggettivismo americano alla post-poésie francese, per approdare nel penultimo volume al «quaderno» del teorizzatore della new sentence: One Hundred Multiple-Choice Questions di John Ashbery, Nioque de l’avant-printemps di Francis Ponge, Holocaust di Charles Reznikoff, Remarques di Nathalie Quintane, The Chinese Notebook di Ron Silliman. Se quindi tale operazione può considerarsi, in un certo senso, un possibile contraltare “analogico” dell’esplorazione “digitale” oltre i confini nazionali già attiva ai tempi di GAMMM, è altresì evidente che il posizionamento nel campo specifico dell’editoria cartacea, seppure indipendente, comporti di per sé una selezione più stringente dei materiali che si sceglie di pubblicare. Sembra che in Benway sia stata privilegiata la pubblicazione di testi che fossero inediti in italiano – anche questa una chiara operazione di politica letteraria – e che, nonostante l’alto grado di eterogeneità, rivelassero una serie di caratteristiche comuni, paradossalmente trasversali ad autori anche molto distanti in termini di poetica, quali potrebbero essere, ad esempio, Ponge e Silliman. Tra queste marche testuali emergono in prima istanza la presenza di un’architettura macrotestuale forte, lo spostamento del focus di lettura sul linguaggio inteso come strumento conoscitivo, l’esibizione delle condizioni di possibilità del testo stesso (strutture formali, indicatori metatestuali, ironia autoriale) a partire dalle quali si innesca un movimento dialettico incessante tra leggibilità e opacità della parola, tra illusione della costruzione testuale come forma conchiusa autotelica e irriducibilità dell’esperienza del reale, come dell’immaginario, al solo linguaggio.
Guatteri, Marzaioli, Bortolotti, Zaffarano
Vorremmo ora analizzare più nello specifico i percorsi dei quattro autori italiani pubblicati all’interno della collana, ovvero Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano.
L’attività di ricerca di Mariangela Guatteri ha sempre spaziato fra testi verbali e audiovisivi, video, installazioni ambientali, lavori intermediali ad ampio spettro che si collocano tanto nell’iperspazio virtuale quanto in una dimensione più propriamente pratica, performativa e collettiva. Nel libro di poesia Stati di assedio (2011) i versi brevi, spesso brevissimi (dei «code-verse») esibivano una struttura proteiforme che si espande sulla pagina coniugando lessico della corporeità, quasi da referto medico-anatomico, e codici algebrici di programmazione, in un regime di compenetrazione di piani fra l’umano e il cibernetico per il quale «l’oggetto animato diviene pròtesi di quello inanimato, in un continuo morphing creatura-cosa-creatura». Nel successivo Figurina enigmistica (2013) l’architettura compositiva dell’opera si complica ulteriormente: si passa dalle paradossali descrizioni in forma di «esempio» intorno a oggetti tanto più geometricamente scanditi quanto più inafferrabili sul piano della percezione, a dei testi che potremmo definire regolativi o prescrittivi, all’interno dei quali l’autrice fornisce delle «istruzioni per l’uso» al lettore, chiamato in modo diretto ad attivare il meccanismo testuale – come consueto per tutti i testi installativi – attraverso le proprie scelte e i propri comportamenti. L’operazione in questione rimanda infatti alla presenza di riquadri vuoti, di stringhe di puntini da completare attraversando una selva di enigmi ipercodificati dei quali verrà fornita nelle pagine successive la soluzione. Spesso l’installazione testuale vede la propria estroflessione pragmatica emanciparsi dal significante grafico e irradiarsi lungo un secondo livello della rappresentazione: durante la lettura in pubblico Guatteri allestisce di frequente performance collettive nelle quali il pubblico – non l’autore nel proprio delirio egoico – è chiamato a compiere gesti, a seguire le procedure dettate dal testo, a “verificare” le parole entro il perimetro dell’azione rituale. All’interno della stessa raccolta troviamo poi dei veri e propri iconotesti, anch’essi legati al campo semantico dell’enigma e del crittogramma intermediale. Siamo infatti di fronte a «soluzioni dei cruciverba» che presentano griglie alfanumeriche con elaborazioni fotografiche digitali sullo sfondo. È possibile riconoscere la sagoma grottesca, in un bianco/nero radiografico, di un maiale, elementi pseudo-naturali poco definiti occultati dietro la struttura puntiforme di un test di logica, e ancora sovrapposizioni di codici verbo-visuali di varia natura, glitch, stringhe di testo in cui la sequenza algoritmica e il pittogramma arrivano a confondersi, nel collasso dei sistemi segnici.
La raccolta pubblicata nel 2017 da Benway Series e intitolata Tecniche di liberazione da una parte convoglia in sé tutte le tecniche compositive sperimentate in precedenza da Guatteri (l’attenzione ai linguaggi visuali e alla veste grafica del testo, l’allestimento di un’infrastruttura macrotestuale solida, il coinvolgimento diretto del lettore, la costruzione di una partitura di percezioni e movimenti), dall’altra ne sancisce, in un certo senso, il superamento dialettico attraverso la scansione di un percorso mirabilmente coeso, che procede per tappe includendo le deviazioni improvvise, gli smottamenti del senso, e che esibisce nel suo snodarsi la purezza del gesto, dell’atto gratuito di linguaggio, tratteggiato dall’autrice ma volto con evidenza all’esecuzione collettiva. Il libro si articola in quattro sezioni, intitolate rispettivamente Il loro suicidio, La modalità vegetale, La propria grandezza, La grammatica, lungo le quali, attraverso «forme di azione e di pensiero create dal gioco», si procede verso una rinnovata sintesi della modalità umana (ciò che ha «origine nella memoria è una continua scarica» e ciò che «è doloroso») e, di conseguenza, verso una progressiva ridefinizione delle categorie della realtà. Il processo percorre le diverse fasi della reciproca «resistenza» fra enti, dell’opposizione tra contrari, fino a pensarsi «passivi: pensati dagli oggetti» e a testare su di sé «Un’altra modalità di esistenza (la posizione, il primo passo). / La censura lucida sugli automatismi; la concentrazione sulla cosa». I riferimenti ai testi filosofici indiani sulla meditazione, come l’Haṭhapradīpikā [Swatmarama, Haṭhapradīpikā, prima edizione italiana Torino, Savitry, 1978] e Le speculazioni indiane sul linguaggio di René Daumal [citato in apertura del testo da Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Roma, Treccani, 1996], si intrecciano con approcci epistemologici che ricordano quello dell’Object-Oriented Ontology e del pensiero ecologico e antispecista. Questo invito a ripensarsi fuori dalla specie in senso biologico mediante la pratica di un esercizio interiore riscontra dunque più di una connessione con la tendenza generale, da parte di molta poesia di ricerca, a reclamare l’appartenenza a un «fuori» (dai generi, dai circuiti, dalle categorie tradizionali), a un’alterità radicale che per essere compresa più a fondo necessita di essere accolta in quanto tale, irriducibile ai sistemi di pensiero entro i quali siamo abituati ad agire.
Sul piano stilistico e visuale, troviamo poi delle porzioni di testo, a volte delle vere e proprie stringhe di linguaggio estremamente prosciugate, che si alternano a una serie di immagini fotografiche; le fotografie inquadrano corpi in tensione, colti nell’atto di esecuzione di un movimento, o al contrario paesaggi naturali nei quali la traccia umana è soltanto accennata o è ridotta al nulla, è quasi una presenza fantasmatica o un ricordo. La lingua oggettuale, scarnificata, dei testi, sembra avere una qualche relazione con le immagini – ritornano infatti le posizioni nello spazio, i movimenti corporei, i rapporti tra gli oggetti e il linguaggio – eppure avvertiamo che sarebbe fuorviante leggere il testo come una didascalia, o, viceversa, la foto come un’illustrazione. Sembrano infatti non sussistere delle gerarchie lineari fra parte visiva e parte verbale, al contrario questi «frammenti di materia» che si liberano e si «staccano dal flusso» costruiscono delle associazioni inedite che si coagulano in un altro flusso parallelo. Le fotografie delineano un continuum percettivo-cognitivo all’interno del quale si innestano le parole come concrezione temporanea delle particelle di questo flusso, sicché la parola scritta, apparentemente statica, incontrando la plasticità dei movimenti immortalati dall’obiettivo fotografico, si trasforma in una «parola per l’azione», in un «atto o testo», per utilizzare la definizione che Jean-Marie Gleize aveva utilizzato in relazione a Francis Ponge [cfr. par. 2.3.1.].
Non a caso, l’ultima sezione (La grammatica), che è quella più specificamente dedicata al rapporto fra individui e linguaggio, come a quello fra linguaggio ed esteriorità del mondo, si pone quale approdo (provvisorio) dell’intero percorso meditativo tracciato nell’opera e presenta una riflessione particolarmente profonda, quasi viscerale, sulla percezione dei vari livelli del linguaggio (lettere, parole, frasi, vocaboli), il cui potere è in parte evidentemente illusorio, in parte può imbrigliare chi ne fa uso a un punto tale da ipotizzare un «corpo fatto di versetti (al di là della chiarezza e delle tenebre)». Soltanto il corpo «liberato vivente» non è più «ostacolo» per la percezione e per il pensiero, a sua volta restituito, in direzione decisamente anti-cartesiana, alla propria natura carnale, fisiologica («l’impronta del pensiero/ la forma dell’oggetto/ il pensiero che è questo oggetto/ nudo concreto»).
Anche Giulio Marzaioli ha spesso mostrato nelle modalità di espressione della propria ricerca poetica una notevole sensibilità intermediale e installativa, della quale uno degli esempi più significativi è l’opera audiovisiva realizzata nel 2010 insieme a Teresa Iaria, intitolata Mproject- 2 e presentata durante l’iniziativa «ESCargot» (20 maggio 2010, Roma), consistente in un «percorso di ricerca in cui immagini e parole dialogano mantenendo la peculiarità dei diversi codici e tessendo una rete di relazioni nell’ambito di uno spazio condiviso»; l’opera viene descritta in questi termini:
Il video presenta una superficie-proiettiva che si costruisce e si sviluppa di fronte all’osservatore, laddove ogni modulo testuale apre una micro-finestra che si trasforma e deforma fino a concentrarsi in un punto che rimane traccia di memoria. Ogni traccia tesse l’eco di una storia che si sovrappone a quelle precedenti, disegnando un campo visivo intenzionale, contrapposto al caos creato dal susseguirsi di voci registrate, lettori casuali di sequenze di una scrittura incentrata sul vincolo delle procedure quotidiane che proprio nella quotidianità delle voci trova un possibile reagente. Occupato il campo, si assiste alla dissolvenza del tracciato, affiora l’elemento naturale e il “disegno” diviene drammaturgia di scomposizione e nuova ricomposizione in cui immagini e voci tornano ad essere cellule di produzione.
[fonte: https://www.nazioneindiana.com/2010/05/19/mproject-2-a-roma/].
Ci sembra curioso che proprio in quest’opera video – quindi esplicitamente non afferente al campo della scrittura letteraria – emergano una serie di motivi stilistici che accomuneranno i due testi pubblicati negli anni successivi da Benway Series: l’allestimento di un percorso di lettura che varia in base alla prospettiva scelta dall’osservatore, la compresenza di più moduli o livelli testuali che si intersecano, l’imprimersi nella memoria di una trama multiforme, verbale e visiva, a partire dalla quale l’andamento prosastico-narrativo convive con un affondo nelle caratteristiche formali del linguaggio e nelle combinazioni che queste consentono, in un’atmosfera straniata, onirica.
In Arco rovescio, del 2014, Marzaioli aveva costruito uno spazio di lettura a partire da due linee di sviluppo simultanee: la prima descrive l’occasione della scrittura, dove si dice, percorrendo i piè di pagina, che questo oggetto-libro «doveva essere un libro di fiabe», salvo passare immediatamente dopo alla registrazione di stati d’insonnia, che prevedono la fissazione ossessiva (con variazioni minime) sul bisogno di un bicchiere d’acqua e sull’apparizione improvvisa, in uno stato di veglia allucinata, di una lucertola. L’elemento della lucertola ritorna nella seconda linea di sviluppo, che è costituita invece dalla «fiaba» vera e propria, una riscrittura del mito di Apollo e Dafne, e occupa la quasi totalità della pagina. Entrambe le linee sono poi percorse da una fitta trama di iterazioni e micro-variazioni sul tema, fino a lasciar emergere un certo andamento circolare – il testo sembra infatti, letteralmente, avvilupparsi su sé stesso, lasciando il lettore nel pieno arbitrio di scegliere la propria modalità di lettura. I brevi brani di prosa inscritti nello spazio della pagina si alternano a pagine con elaborazioni grafiche in bianco e nero a partire da fotografie in bassissima definizione, e ad altre pagine ancora contenenti pochi sintagmi o segmenti frastici disseminati nel «bianco» di fondo, che corrispondono ai moduli compositivi primari sulla base dei quali, per combinazione e montaggio, è stata intessuta la trama dei brani in prosa precedenti («sulla terra», «sentì tutto il suo peso», «sembrava piegarsi», «quando si alza», «soffre», «iniziò a invecchiare», «poi scomparve»). Questo percorso giocato su equilibri fra variazioni timbriche, come in una Klangfarbenmelodie di unità sintattiche, si conclude con l’illustrazione didascalica, da manuale tecnico, dell’«arco rovescio», un ultimo inserto straniante, inaspettato, che giunto in fine di un lungo sogno riconduce, per paradosso, alla realtà.
Anche nel recentissimo Il volo degli uccelli (2019) si costruisce uno spazio testuale e percettivo, ma questa volta la prospettiva sembra dilatarsi in modo considerevole fino ad abbracciare, almeno teoricamente, l’intero campo dell’esperibile. Marzaioli sembra aver allestito un macrocontenitore all’interno del quale troviamo una serie di oggetti e di relativi campi semantici giustapposti l’un l’altro. Sembra esserci un soggetto in terza persona non meglio specificato, anche qui quella funzione linguistico-cognitiva che abbiamo più volte incontrato lungo la nostra indagine, che descrive in termini tecnici estremamente dettagliati le circostanze e i contenuti dei suoi studi sul volo degli uccelli. A questo campo semantico sono connesse le tavole illustrate con le battute di volo e il glossario finale con le definizioni enciclopediche del lessico utilizzato. All’interno dello stesso contenitore, secondo un radicale livellamento delle categorie ontologiche e logiche, troviamo una serie di ambienti, esterni come quelli naturali che si esplorano durante le passeggiate in montagna, e interni come una stanza che contiene diversi oggetti personali sempre relativi all’osservazione e all’esplorazione. Questa «voce» quasi del tutto impersonale riporta al lettore, alla stregua di una cassa di risonanza che sia il più possibile asettica, registrazioni e riflessioni sul mondo minerale, sulle piante, sui progetti di una macchina volante e sui limiti delle capacità umane se confrontate con quelle di altri regni biologici. Il soggetto sembra poi comunicare con un bambino, ci sono riferimenti all’infanzia e al senso di perdita della vita adulta, ma il tempo stesso sembra non avere una consistenza autonoma, e diventa anzi una delle tante partizioni dell’iperluogo (o, ancora, dell’eterotopia foucaultiana) nel quale tutto è collocato. Impossibile, dunque, non notare, anche per Marzaioli, la relazione di questo tipo di scrittura con tutte le forme di pensiero anti-antropocentriche, ma non per questo meno “umaniste”; in aggiunta rispetto ai casi osservati in precedenza, in quest’opera sembra di scorgere i prodromi di una più vasta riflessione sull’animalità e sul rapporto uomo-animale, laddove quest’ultimo non è identificato né con la mera istintualità né con una ipotetica “purezza” inattingibile per gli umani, ma semplicemente con un’alterità preesistente rispetto all’universo linguistico e mediale umano, fatta di strumenti, abitudini, relazioni che possiamo soltanto ipotizzare.
Il paziente esercizio di attenzione e auscultazione rivolto al mondo naturale risuona progressivamente come un monito a diffidare delle illusioni umane di onnipotenza, o di totale riducibilità del reale al pensiero logico-razionale e alle categorie varate dall’uomo: al contrario, il libro di Marzaioli sembra invitare il lettore a pensare sé stesso non più come centro ma come fenomeno, non più come campione della scala evolutiva ma come ente neutro.
In Quando arrivarono gli alieni di Gherardo Bortolotti [Colorno, Benway Series, 2016] alcuni elementi potrebbero generare il sospetto di non trovarsi di fronte a un libro di poesia: innanzitutto l’utilizzo dei tempi verbali (con un’alternanza fra passato remoto e imperfetto) e la costruzione di un arco di azione più o meno coerente, con l’abbozzo di uno svolgimento che, pur nella variazione continua della prospettiva, descrive una catena di eventi definita. Il punto di vista oscilla spesso fra quello di una prima persona plurale, interna all’azione e partecipe del suo svolgimento, e quello appartenente a una voce decisamente esterna, grazie alla quale apprendiamo del ritorno in scena di bgmole, di cui si parla – come sempre – in terza persona. Appare curioso che i testi di Bortolotti, anche in una fase antecedente a questa, siano stati più volte interpretati come delle micronarrazioni, e in effetti Bortolotti era stato annoverato da Andrea Cortellessa fra i «narratori degli anni Zero», con l’inclusione nell’antologia del 2014 La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014) [a cura di Andrea Cortellessa, Firenze, Le Lettere, 2014].
Il caso di Quando arrivarono gli alieni ci sembra particolarmente emblematico proprio per indagare più a fondo la fenomenologia testuale dei testi di Bortolotti. Nonostante, sul piano strettamente semantico, si potrebbe avere l’impressione di trovarci di fronte a delle strutture narrative – un dato che si potrebbe evincere dagli scritti di quasi tutti gli autori di Prosa in prosa –, sul piano formale deduciamo un’altra serie di dati che ci conducono, con ogni probabilità, in un’altra direzione:
- sul piano macrotestuale, Bortolotti ha sempre pubblicato libri dall’architettura complessiva ipersorvegliata, usciti all’interno di collane di poesia (di ricerca), e già questa ci sembra una scelta preliminare non trascurabile;
- a livello sintattico, per quanto la componente di “azione” risulti più pregnante rispetto alle raccolte precedenti, l’attenzione principale di chi legge è rivolta ancora una volta al «ritmo» generale degli enunciati, prevalentemente sintagmatico e associativo, che genera un “disturbo” sistematico nella costruzione cognitiva di uno scenario o frame;
- infine, l’intero testo sembrerebbe presentarsi come una lunga digressione di tipo epidittico-dimostrativo in risposta alla domanda (implicita): «Cosa accadrebbe, come reagiremmo in quanto collettività, se fossimo coinvolti in un’invasione aliena?». L’intero arco narrativo sembrerebbe quindi collocato all’interno di una più ampia installazione poetica volta a mostrare, come in uno schermo e in un susseguirsi di immagini spesso incoerenti, le possibili percezioni, azioni e concatenazioni di eventi scatenate da un immaginario distopico in un’era ipertecnologizzata e post-capitalistica.
Bortolotti attinge a piene mani a un repertorio tematico e iconico codificato da certa narrativa cyberpunk/fantascientifica, in particolare di area statunitense (impossibile non avvertire echi à la Thomas Pynchon, William Vollmann, Bruce Sterling…), e utilizza il pretesto dello pseudo-racconto di argomento distopico per mettere in luce le contraddizioni sociali e politiche messe in campo dal sistema capitalistico in pieno delirio autofago, dal globalismo digitalizzato più spinto, dall’antropocentrismo cancellato in pochi istanti con l’irruzione improvvisa di altri «esseri senzienti che producevano in messa atti di razionalità locale e meschina» [Gherardo Bortolotti, Quando arrivarono gli alieni, 247].
Nonostante la presenza simultanea dei numerosi prelievi di matrice narrativa, l’intento dell’autore non sembra tanto quello di creare un mondo possibile, quanto quello di rendere più consapevole chi legge dei complessi sistemi di forze che regolano il mondo reale, e che in una dimensione teoricamente improbabile ma “realistica” emergono, semplicemente, con maggiore evidenza.
L’attività di Michele Zaffarano risulta particolarmente prolifica nell’ambito della curatela e della traduzione all’interno di circuiti editoriali indipendenti: dal 2005 al 2016 ha fondato e diretto la collana «ChapBooks» per l’editore Arcipelago, dal 2006 al 2012 la collana di traduzioni «Auberge Ravoux» per La Camera Verde, nel 2013 sarà tra i fondatori del progetto Benway Series, che vedremo più avanti nello specifico. Nel suo caso, come in quello di Giovenale, occorre fare un passo indietro rispetto alla pubblicazione di Prosa in prosa per scorgere il progressivo delinearsi di una “tendenza installativa” sin da opere precedenti al libro collettivo. In A new house, del 2008 [Michele Zaffarano, A new house, Roma, La Camera Verde, 2008], Zaffarano presenta diverse sequenze di versi, fortemente irregolari e di matrice prevalentemente visiva, nei quali leggiamo una serie di dati statistici espressi in percentuale e in doppia lingua, italiano e inglese (ad esempio: «50% admit they regularly sneak food into movie theaters/ Il 50% ammette di portarsi regolarmente al cinema del cibo di nascosto»). Ciascun verso corrisponde a un enunciato o a un’unità di senso, e siamo pertanto portati a pensare che l’origine di questi versi sia da considerarsi comunque “prosastica”, così come prosastico-associativo è il ritmo di lettura derivante dall’accostamento di parole e fotografie – che ritraggono interni vuoti di vario tipo, stanze, pareti, etc. La costruzione di un’architettura complessiva nettamente percepibile e l’utilizzo di prelievi testuali tratti da fonti eterogenee – secondo la pratica della sought poetry – ritornano ne L’invenzione della scrittura (2010) [id., L’invenzione della scrittura, ne Il libro dell’immagine. Volume VIII, Roma, La Camera Verde, 2010], insieme al tema-involucro deducibile dal titolo, che a sua volta si riallaccia a uno degli assi semantici portanti di Wunderkammer. Qui si ha l’impressione che l’intero testo coincida con un lunghissimo prelievo tratto da una voce enciclopedica e in seguito rimaneggiato e disposto in segmenti pseudo-versali dall’autore. È tuttavia interessante notare che l’intento sembrerebbe tutt’altro che pedagogico-didascalico, anzi, se in Wunderkammer avevamo rintracciato il paradossale dispiegarsi di un percorso iniziatico, ne L’invenzione della scrittura è come se, procedendo a ritroso, si fosse costruito il campo d’azione necessario per rendere possibile quell’emancipazione dagli stereotipi linguistici e letterari pronosticata dal lavoro precedente: un campo dove domina la libertà assoluta del gesto del “dire” che rimanda unicamente a se stesso, la libertà della formulazione radicale che non necessita di giustificazioni referenziali esterne. In relazione alla scrittura di Zaffarano, sempre attraversata da elementi ludici e ironici, Andrea Inglese ha ravvisato, non casualmente, un certo influsso di Denis Roche, in particolare per quanto concerne «il principio della versificazione come gesto arbitrario, convenzionale, atto a instaurare, attraverso il semplice intervallo tipografico, una forma di sospensione e di straniamento degli enunciati che, di per sé, ne garantisce un interesse estetico» [Andrea Inglese, «L’ironia linguistica di Michele Zaffarano», in Journal of Italian Translation, n. 2, a. 2009, cit. in Ostuni 2010, p. 350].
Il passaggio concettuale successivo consisterà, per l’appunto, nel trasformare quest’atmosfera di sospensione onirica, quasi regressiva e azzerante rispetto alle consuete gerarchie cognitive, nel presupposto necessario per l’azione diretta del linguaggio sul contesto pragmatico nel quale si inscrive. Questa valenza più propriamente etico-politica dei versi-prosa di Zaffarano toccherà, a nostro avviso, la fase di maggior esplicitazione in Cinque testi tra cui gli alberi (più uno), del 2013, raccolta nella quale la vocazione “enciclopedica” si accompagna alla ridescrizione di una porzione di mondo attraverso una consapevole riduzione del punto di vista a un livello elementare tipico dell’infanzia o di un soggetto indefinito, invisibile, che osserva il mondo come se lo stesse scoprendo per la prima volta. Ciascun testo corrisponde a un’entità concreta, pescata nel sottosuolo mnestico dell’infraordinario infantile, che viene sistematicamente ri-formulata e dunque, sul piano cognitivo, ri-plasmata. Le definizioni riguardano una serie di oggetti comuni ai quali ci si accosta mediante un contatto straniato, che ritrova la sorpresa della percezione abolendo tutte le congetture e le sovrastrutture dell’età adulta; i testi si intitolano non a caso: Gli alberi, La primavera, Il libro, I fiori, Le case, ciascuno seguito da un quadrato bianco (a eccezione dell’ultimo, accompagnato da una fotografia astratta) che sembra segnalare questa tabula rasa della memoria. È interessante notare che l’unica tematica relativamente più complessa sia consegnata al testo di apertura, una premessa all’intero libro che sintetizza il pensiero di Gramsci focalizzando l’attenzione sui legami fra il «processo rivoluzionario (concreto)» e i rapporti materiali fra individui e credenze (i sentimenti e le nozioni, le velleità e le abitudini) oltre che fra individui e individui, secondo determinate logiche di potere. Se si considera la scelta di collocare questo testo in apertura, insieme a un altro elemento paratestuale come il sottotitolo «poesie civili», appare ragionevole interpretare la premessa come, in un certo senso, delle “istruzioni per l’uso” alla luce delle quali leggere l’intero libro. Emerge infatti con chiarezza il rapporto rilevato da Groys fra opera installativa e democratizzazione dell’arte [cfr. Boris Groys, In The Flow (2016), Milano, Postmedia Books, 2018], ovvero l’autore induce il lettore-spettatore a modificare in modo radicale la propria prospettiva con l’intento di porre le basi per una «responsabilità estetica», per una maggiore coscienza delle coercizioni e degli automatismi quotidiani che l’ordine egemone innesta negli individui. Uno di questi è proprio l’assuefazione percettiva che caratterizza l’era post-mediale e che probabilmente possiamo contrastare soltanto mettendo in discussione il nostro “dover essere adulti e funzionali al sistema”, e quindi narcotizzati.
Abbiamo dunque avuto modo di constatare come le pratiche di confine fra poesia e installazione abbiano nell’ultimo decennio assunto con sempre più chiarezza le sembianze di un progetto collettivo, corale, profondamente improntato alla contaminazione fra arti e saperi. In questo contesto, la scelta operata da Benway Series attraverso la creazione di oggetti-libri e l’allestimento di architetture verbo-visuali complesse riabilita in pieno un’idea di installazione “totale” come recupero della materialità del linguaggio, sfida alla prossimità delle cose che supera la singolarità senza eludere le differenze, riformulazione radicale del nostro sguardo sul mondo.
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